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Quando la corsa da’ alla testa.

di Dario Marchini – 13 febbraio 2019

Runner per passione, assassino per professione

Incastrato dal suo GPS. L’incredibile storia di Mark “Iceman” Fellows, il runner-killer di Manchester.

Si chiama Mark “Iceman” Fellows, 39 anni, ed è stato giudicato colpevole di omicidio per aver assassinato il boss Paul Massey e il suo socio John Kinsella. Tutto grazie all’analisi dei tracciati del suo GPS.

Mark Fellows era già stato condannato per la morte di Kinsella, ma è stato il tracciato del suo Garmin Forerunner 35 a collegarlo definitivamente anche all’omicidio irrisolto di Massey del 2015. Durante le indagini i detective hanno infatti trovato una foto di Fellows che indossava il suo Garmin durante la Great Manchester Run 10K del 2015 (47′ 17″ il suo tempo finale, nella foto) due mesi prima dell’omicidio. La polizia ha quindi controllato i dati del suo GPS, scoprendo che il runner-killer aveva progettato l’omicidio con la precisione maniacale di un assassino, registrando e salvando però ingenuamente le sue missioni di ricognizione come un qualsiasi runner che va ad allenarsi.

Con l’aiuto di James Last, esperto di radio-navigazione satellitare, hanno esaminato i tracciati del Garmin di Fellows per trovare elementi che lo potessero legare al delitto, scoprendo che proprio due mesi prima dell’omicidio, il GPS aveva registrato un’attività di 35 minuti iniziata nel quartiere dove abitava Fellows e terminata proprio in un campo vicino a casa di Massey. La prima parte percorsa a circa 20 km/h come se fosse stata fatta in bicicletta, la seconda a circa 5 km/h come se stesse camminando, prima di fermarsi per circa otto minuti. Una prova schiacciante che ha incastrato definitivamente “Iceman”, risolvendo così il caso e facendolo condannare all’ergastolo

Ciao Leo esempio di coraggio.

Addio al maratoneta che correva contro il cancro

Famoso per la sua linguaccia, Mattarella lo premiò: a novembre era in gara a New York

Milano «Il nostro Leo è volato in cielo, tra gli angeli. La sua missione sulla terra è terminata» ha scritto su Facebook Avanti tutta, la onlus che aveva fondato.

«Di questi sei anni che gli sono stati regalati dalla malattia non ha sprecato neanche un giorno. Con i sogni ai piedi e l’invincibilità nel suo cuore è riuscito a realizzare tanti dei suoi desideri ed il resto saranno portati a compimento perché il patrimonio umano e materiale che lui ha creato non andrà disperso..». É morto all’ospedale di Perugia Leonardo Cenci, 46 anni, malato di tumore, impegnato da anni nel mondo del volontariato con la sua onlus che ha dato la notizia della sua scomparsa sul suo profilo social. E sono stati migliaia i messaggi per salutare un atleta che con la corsa e le maratone aveva acceso una speranza tra chi come lui proprio con lo sport sfidava il cancro.

Lo conoscevano tutti «Leo» e lo scorso anno era anche stato nominato cavaliere dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella: «Per la determinazione e la forza d’animo con cui ha affrontato la sua gravissima malattia offrendo agli altri malati un esempio di reagire e di difesa della vita». Era diventato un faro per chi si trova nelle sue condizioni con una storia di tenacia che per molti è stata la strada da seguire in tutti questi anni. Storia che non finisce con la sua scomparsa. Che sopravviverà con la sua associazione che continuerà a raccogliere fondi per tutti i malati oncologici. Un esempio immenso, infinito, più efficace di qualsiasi campagna mediatica. La sua corsa e le sue «linguacce» immortalate in mille foto sono andate oltre ogni tempo. «Si dice che Dio lasci le battaglie più difficili ai suoi soldati migliori – aveva detto pochi mesi fa durante l’ultimo dei tanti ricoveri – E io credo che mi abbia confuso con Rambo»

Non ha mai mollato. Il suo sogno era correre a New York perchè ripeteva spesso che nella maratona c’era il miracolo possibile. C’ era una luce che doveva restare accesa. Per correre due anni fa nella Grande Mela si era allenato quattro anni nonostante i ricoveri, nonostante le chemio, nonostante tutto. Voleva essere il primo italiano a correre la maratona di New York con un tumore in atto e battere il record 5 ore e 32 minuti del fondatore della NewYork city marathon Fred Lebow che corse con un cancro al cervello. E così fu. Una vittoria, ovviamente non la più importante. Una vittoria che è servita più agli altri che a lui, a tutti quelli che come lui non vedevano la luce nel tunnel della malattia e che però ha convinto a non lasciarsi andare. La sua è stata una storia incredibile. Incredibili sono state la tenacia e la determinazione con cui si è battuto nel tenere testa a un tumore ai polmoni che gli aveva lasciato sei mesi di vita. E invece no. «Contro il cancro voglio vincere io…» ripeteva sempre. Una speranza che resta, anche ora che se n’è andato.

HAILE GEBRSELASSIE: LA LEGGENDA.

Haile Gebrselassie si ritira: “smetterò di competere, non certo di correre; la corsa è la mia vita”

“Dopo la maratona di New York annunciai il mio addio sulla spinta emotiva della brutta prestazione. Quando sono tornato in Etiopia però la reazione della gente mi ha travolto, non gli piaceva il modo in cui avevo deciso di porre fine alla mia carriera. E avevano ragione”. Il 7 novembre 2010, al 26esimo kilometro della New York Marathon Haile Gebrselassie abbandonò la gara e poco tempo dopo annunciò il suo ritiro dalle competizioni. Ci ripensò e qualche mese più tardi tornò a correre, veloce come prima. Ieri ha percorso addirittura due volte i 10 km della Great Manchester Run; la prima chiudendo al 16esimo posto, la seconda come passerella in mezzo a tutti gli appassionati, tra foto e applausi. E al traguardo ha annunciato il suo ritiro, che questa volta, a 42 anni, sembra essere definitivo. “Smetterò di competere, non certo di correre” ha dichiarato ai microfoni della BBC, “correrò finché vivrò, la corsa è la mia vita”.

Paula Radcliffe, che due settimane fa a Londra ha concluso la sua ultima maratona, ha twittato: “un atleta fantastico, un grande agonista e un uomo straordinario. Grazie Haile”. Questo è stato, lungo i suoi 25 anni di carriera, Gebrselassie, oro olimpico dei 10.000 a Sydney e Atlanta e in diverse occasioni su un podio iridato, tra il 1993 e il 2003. Tra strada e pista ha stabilito 27 record del mondo, tra cui quelli ancora imbattuti dei 20 km e dell’ora. È stato il primo uomo della storia a correre una maratona sotto le due ore e quattro minuti (2h03’59”), a Berlino nel 2008. Nel 1998 è stato nominato atleta dell’anno IAAF.

A metà tra leggenda e realtà, iniziò a correre per coprire i 10 km che separavano la scuola dal villaggio di Arssi. I suoi piedi di bambino accarezzavano lo sterrato e la sabbia con la leggerezza e il passo veloce che hanno contraddistinto la sua azione anche in età adulta. Divenuto famoso a livello internazionale, Haile Gebrselassie non si è dimenticato delle sue origini e ha sempre cercato di sensibilizzare l’attenzione del mondo sui problemi dell’Etiopia. Ha costruito scuole e dato lavoro a moltissimi suoi connazionali; ha creato la Great Ethiopian Run, la manifestazione podistica più grande del continente africano. Ed è ambasciatore di alcune iniziative internazionali.

Per la sua ultima gara (anche se qualcuno ha già detto che tornerà a competere sul serio) ha scelto la Great Manchester Run, di cui aveva vinto cinque edizioni. Ha corso con un grande sorriso, lo stesso mostrato all’arrivo durante l’intervista sul palco ma anche lungo tutta la sua carriera. “Sorrido perché sono uno sportivo e lo sport è nato per far felice la gente” aveva detto tempo fa, “se non fossi così contento di correre smetterei. Ma sono felice e corro perché mi piace correre, tutto qui”.

Volantino Maratonina 2015

Libri da leggere… di corsa.

Correre nel “grande vuoto”. Vi racconto la mia maratona nel deserto‏ di Marco Olmo Gaia De Pascale

“C’è una settimana all’anno in cui non c’è spazio per la meschinità, l’inganno, la codardia, il sotterfugio, ed è la settimana della Marathon des Sables…”. Marco Olmo, con Gaia De Pascale, racconta su ilLibraio.it la sua partecipazione alla famosa corsa nel deserto del Sahara.
E così l’ho fatto. Ho corso la mia ventesima Marathon des Sables.

Nel 1996, quando ho accettato la sfida per la prima volta, tutto avrei potuto immaginare tranne che avrei continuato per due decenni. E invece eccomi qua, a guardare le fotografie di una gara che si è fatta già ricordo, a rileggere per l’ennesima volta i messaggi degli amici che hanno seguito passo passo la mia impresa. Tra tutti, uno mi ha colpito in maniera particolare. È una e-mail di Paolo Rovera, e dice così: «Adesso starai toccando con mano l’essenza umana, quanto siamo piccoli di fronte all’universo… ricorda che da trent’anni a questa parte c’è una settimana all’anno in cui non c’è spazio per la meschinità, l’inganno, la codardia, il sotterfugio, ed è la settimana della Marathon des Sables».

Magie del deserto, verrebbe da dire. Magie che ho sempre il timore possano svanire, risucchiate dall’abitudine, confuse tra la mischia della partenza. Anche questa volta è andata così. Più di mille persone al via, la sottile angoscia che l’incanto di un tempo fosse svanito. Poi, dopo un’ora e mezza, ogni cosa è andata al suo posto. Il gruppone iniziale si è sfilacciato, il corridore che mi precedeva era a più di duecento metri da me, di quello dietro non sentivo più il passo. Eravamo solo io e il deserto. Tutto, all’improvviso, si è fatto piccolo. I dolori, le paure, le fatiche della vita di sempre. Ho ripensato ai deserti in cui ho gareggiato: Giordania, Sinai, Mauritania, Mali, Namibia. E poi il più bello, il deserto dell’Akakus, in Libia, ai confini con l’Algeria. Oggi quell’area non è più praticabile, e le immense dune, le rocce erose dal vento, le vaste distese di ghiaia sono chiuse in un silenzio cupo, assediato dal fragore violento della Storia. Ho scacciato via questo pensiero, ho respirato forte, e sono corso incontro a quello che ho sempre cercato tra le distese di sabbia: la più profonda solitudine.

Questo è il deserto per me: tornare alla nudità del mondo, a prima che tutto accadesse, anche la vita stessa. Qualcosa, in questo paesaggio così estremo ed essenziale, mi è sempre stato congeniale. Ora sono in grado di «navigarlo», di adattarmi al tipo di spinta che viene da sotto, di evitare con la forza del puro istinto la sabbia mossa, quella che rallenta il passo e pesa sui muscoli. Ho imparato a correre leggero, a sopportare il vento che per gli strani giochi del caso soffia sempre contro.

Una sera, mentre riposavo nella tenda, mi sono guardato da fuori. Ero stremato, sporco di sabbia, buttato per terra, ridotto all’essenziale. Non mi sentivo nemmeno più un uomo, ma qualcosa di infinitamente più piccolo, e infinitamente più grande. Ho pensato che Sahara significa «grande vuoto». Ci ripenso anche oggi, nella mia casa. Credo sia quel vuoto che non smetterà mai di mancare a noi che abbiamo tutto, nel nostro mondo troppo pieno. E credo che, in un modo o nell’altro, nella vita o nei sogni che talvolta si fanno incubi, quel vuoto mi chiamerà ancora a sé. Una parte di me ormai gli appartiene – e gli appartiene da quando, per la prima volta, mi sono voltato mentre correvo, e non ho visto nessuno, e non ho visto niente: né un uomo, né un’auto, né una casa, né un albero.
Solo il deserto.

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*Gli autori – Operaio nel cementificio Buzzi nelle valli del cuneese, Marco Olmo, autore (con Gaia De Pascale, per Ponte alle Grazie) del libro Il corridore, con costanza e forza di volontà si allena sulle montagne intorno a casa sua. La partenza è modesta: arriva penultimo a una campestre di quattro chilometri. Ma lui capisce che quello che conta è non demordere. Dopo un periodo passato a gareggiare nella corsa in montagna e nello sci-alpinismo, all’età di quarant’anni ha iniziato ad affrontare competizioni nel deserto africano, raccogliendo un successo dopo l’altro. Vent’anni dopo vince l’ultra trail più dura e più importante del mondo: il giro del Monte Bianco. Ventuno ore di corsa in completa autonomia, senza fermarsi né a mangiare né a dormire… E ora il deserto…