FAQ

In questa sezione puoi trovare risposte alle domande più frequenti relative alla medicina dello sport.

Donazione di sangue e sport

Sono centinaia di migliaia nel mondo gli individui che praticano
regolarmente attività sportiva ed effettuano donazioni di sangue con una certa regolarità, ma gli effetti di questa sulla performance agonistica nell’immediato non sono a tutti chiari; motivo per cui alcuni atleti sono titubanti nell’effettuare una donazione di sangue.
In effetti una donazione di sangue è un evento che il nostro fisico non può assorbire semplicemente con un cappuccino e una brioche, soprattutto se si pratica un’attività sportiva molto intensa.
Una donazione di sangue che comporti una perdita ematica di 250 cc. causa una diminuzione della quantità di sangue disponibile superiore al 5%, praticamente irrilevante per un individuo sedentario in buona salute. Non è così per uno sportivo. Alcuni autori parlano addirittura di “doping al contrario”, riferendosi ad una donazione di sangue, anche se come vedremo successivamente la realtà dei fatti appare ben diversa.
In effetti, supponendo che il soggetto parta da un valore di ematocrito di 44, dopo la trasfusione la parte liquida del sangue si ripristina facilmente, mentre per la parte corpuscolata il processo è molto più lungo e per riavere lo stesso numero di globuli rossi occorrono circa 10 – 12 giorni, dovuti in gran parte al fatto che un ciclo emopoietico completo dura una settimana circa; realisticamente l’ematocrito scenderà del 5%, attestandosi intorno ai 42. Se l’atleta non è conscio di questo e non rallenta gli allenamenti, può andare incontro a uno stress notevole, sia fisico (tentando di sostenere allenamenti che il fisico non regge) sia psicologico (non comprende perché è peggiorato); tanto per avere un’idea più chiara va detto che per un podista il peggioramento può anche essere di 10’’/Km.
Per comprendere meglio gli effetti di una donazione di sangue sulla performance sportiva un gruppo di autori americani hanno effettuato uno studio pubblicato sull’”American Heart Journal” nel 1995 in cui hanno studiato un gruppo di ciclisti agonisti sottoponendoli ad un test per la determinazione del massimo consumo di ossigeno e della soglia anaerobica una settimana prima rispetto ad una donazione di sangue. In quell’occasione ogni atleta è stato sottoposto ad un prelievo ematico a riposo per la determinazione del lattato, dell’emoglobina e dell’ematocrito.
A distanza di una settimana da questa prima valutazione ogni atleta si è sottoposto ad una donazione (1 unità di sangue intero).
Le valutazioni successive, tutte identiche alla prima, sono state effettuate a distanza di 2 ore dalla donazione e di 2 e di 7 giorni.
Gli autori non hanno osservato alcuna differenza statisticamente significativa per quanto riguarda i livelli di emoglobina tra la prima e la seconda valutazione (14,8 vs 14,5 mg/dl), mentre il calo è risultato significativo in occasione dei due successivi controlli (14,8 vs 13,9 e 13,8 mg/dl).
La riduzione del massimo consumo di ossigeno è risultata essere significativa in tutti controlli, con valori di lattato e frequenza cardiaca massimale sovrapponibili, ciò a dimostrare che lo sforzo è risultato essere massimale in tutte le valutazioni effettuate.
Il dato rilevante è stato che nessuna differenza è stata misurata per quanto riguarda il valore di consumo di ossigeno a livello submassimale.
I risultati di questo studio indicano pertanto che la performance massimale di un atleta in buone condizioni fisiche è ridotta dopo una donazione di sangue per almeno sette giorni, ma anche che a livello submassimale la donazione non sembra incidere particolarmente sulla performance; questo si spiega con il fatto che a un tale livello di stress, la capacità di trasporto della emoglobina e’praticamente la stessa-
Se l’atleta non è conscio di questo e non rallenta gli allenamenti, può andare incontro a uno stress notevole, sia fisico (tenta di sostenere allenamenti che il fisico non regge) sia psicologico (non capisce perché è peggiorato; tanto per dare dei numeri il peggioramento per un runner può essere anche di 10″/km).

Perciò cosa fare dopo una donazione :

a) non gareggiare

b) non effettuare lavori di qualità (ripetute)

c) diminuire il chilometraggio settimanale di un 20% (per diminuire i danni ematici da microtraumi)

d) effettuare i lenti, i medi e i progressivi con un appesantimento dei tempi di circa 10″/km.

Tutto questo per due settimane dalla donazione.

alimentazione prima della maratona

Nonostante quanto comunemente si possa pensare le regole alimentari anche in vista di una maratona sono estremamente semplici e non sconvolgono assolutamente le abitudini alimentari del soggetto.
Le innumerevoli diete proposte nel corso degli anni per aumentare il carico del glicogeno muscolare e che purtroppo vengono ancora seguite continuano a mietere vittime.Purtroppo il nostro organismo non e’ in grado di aumentare oltre un certo limite il glicogeno (max 400 gr )che pertanto non sara’ mai sufficiente per corre una maratona ( circa 500 gr).
Gia’ la settimana pregara, quella di scarico,proprio in virtu’ della riduzione del lavoro muscolare, portera’ ad un aumento delle scorte. Per far fronte alle crisi che sicuramente ci aspettano dal 25 Km in poi le integrazioni glucidiche sono minime. Puoi calcolarle dalla seguente formula 13.6xpeso : 4= grammi di glucidi da integrare, preferibilmente il giorno prima della gara fra la colazione e il pranzo tramite barrette o integratori liquidi o una bella crostata. Per il resto puoi seguire la tua dieta normale il L M e M , mentre il G e S dividere le calorie totali senza aumentarle nel 70% di carboidrati 15% di grassi e proteine.
Non dimenticare la sera del sabato un bel piatto di pasta. La mattina della gara se sei abituata fai una colazione circa tre ore prima del riscaldamento con alcune fette biscottate con miele caffe’ e o biscotti secchi evitando cappuccino e caffelatte in quanto possono allungare i tempi di digestione. (Franca 23-10-2006)

sindrome del muscolo piriforme

Il muscolo piriforme e’ un piccolo ma potente muscolo situato nella profondita’ del gluteo che dalla parte anteriore del sacro passando attraverso il forame ischiatico si porta verso la regione trocanterica del femore. Durante la corsa soprattutto nella fase di appoggio ha una funzione importante nello stabilizzare il femore ed impedirne la rotazione interna. Puo’ quindi andare incontro a fenomeni di ipertrofia e irrigidimento e con cio’ comprimere il nervo sciatico che nel suo decorso dalla colonna lombare all’arto inferiore passa proprio nelle strette vicinanze del suddetto muscolo. Proprio per questo i sintomi sono simili ad una sciatalgia con dolore e alterazioni della sensibilita’ alla gamba oltre a dolore al gluteo nella fase della corsa. Talora il muscolo gonfio e teso puo’ essere percepito alla palpazione. Talvolta in una condizione clinica ancora latente la sintomatologia puo’ esordire acutamente per esempio nell’atto di trattenersi dal cadere o durante un cambio brusco di direzione di corsa.
Il trattamento oltre che attraverso la fase del riposo passa attraverso il trattamento massoterapico e lo stretching del muscolo.

(Dr M.Corsini)

morte improvvisa cardiaca

Novità in Cardiology A cura di Chiara Mariani

 

Morte cardiaca improvvisa: il modello italiano di screening per i giovani atleti

La morte cardiaca improvvisa (SCD) in un giovane atleta è un evento raro che, ogni qual volta si verifica, determina un impatto emotivamente devastante sull’opinione pubblica e sui medici, sia per la sua imprevedibilità che per la drammaticità dell’esito. In questi casi si stima una percentuale di mortalità 5 volte più elevata negli atleti maschi che nelle femmine (7.47 vs 1.33 x milione di atleti/anno) con cause non cardiache evidenti solo nel 22% dei casi e con la maggior parte dei decessi che riguardano soggetti praticanti football e basket (1). Le malattie cardiovascolari congenite sono le maggiori responsabili di SCD fra i giovani atleti in attività agonistica e fra queste attualmente le cardiomiopatie rappresentano la causa più comune, seguite dalla coronaropatia ateroclerotica e dalla origine anomala di un’arteria coronaria. (2).

Per anni si è discusso dell’uso di un test di screening per identificare i pazienti ad alto rischio basato su criteri epidemiologici e non meramente sul consenso di media ed opinione pubblica. Il dilemma era rappresentato dal come controllare 200.000 atleti asintomatici per identificare potenzialmente un atleta che sarebbe andato incontro a SCD in competizione. In altre parole disponendo di un test con una specificità e una sensibilità del 99%, data la bassa prevalenza della SCD, solo 1 su 2000 esami sarebbe stato un vero positivo contro 1999 falsi positivi.

Nel 1982, in Italia, venne istituito un programma nazionale obbligatorio di screening per atleti dai 12 a 35 anni costituito da un’anamnesi dettagliata, l’esame clinico e un ECG a 12 derivazioni. L’impatto di questa modalità d’intervento nella prevenzione della SCD è stato analizzato da un gruppo di ricercatori dell’Università di Padova(3) all’interno di uno studio sulla popolazione della regione Veneto che ha definito i trend della SCD nei gruppi di atleti e non atleti di 12 – 35 anni nel periodo 1979 – 2004, valutando contemporaneamente i dati relativi ai casi di non idoneità per cause cardiovascolari in 42.386 atleti sottoposti a screening presso il Centro di Medicina dello Sport di Padova (22.312 nel primo periodo 1982-1992 e 20.074 nell’ultimo periodo 1993-2004).

Durante l’osservazione sono state rilevate 55 SCD negli atleti controllati (1.9 morti x100.000 persone/anno) e 265 SCD nei non atleti non controllati (0.79 morti x100.000 persone/anno), con un progressivo declino del tasso di incidenza che è passato da 4.2 x 100.000 persone/anno nel periodo pre-screening a 2.4 nel primo periodo di screening e scendere ulteriormente a 0.9 nell’ultimo periodo. La determinazione del tasso annuo di incidenza di SCD si è ridotta del 89% dal 1979-1980 al 2003-2004 passando dal 3.6 allo 0.4 x 100.000 persone/anno (p < tendenza a .001). Dopo l’introduzione dell’obbligatorietà dello screening il tasso di mortalità ha iniziato a scendere e il trend persiste anche nell’ultima fase di controllo. Questa riduzione di mortalità rispetto al pre-screening è da correlare in gran parte con la riduzione di incidenza di morti per cardiomiopatia riscontrata nell’ultimo periodo (1.50 vs 0.15 morti x100.000 persone/anno; p tendenza = .002). Infine durante lo svolgimento dello studio sono stati esonerati dalle competizioni 879 atleti per cause cardiovascolari, con un incremento nell’identificazione dei soggetti affetti da cardiomiopatia che sono passati dai 20 (4.4%) iniziali a 40 nell’ultimo periodo di screening (p= .005).

Questi dati mostrano come l’incidenza di SCD nei giovani atleti si sia sostanzialmente ridotta dall’introduzione di un programma sistematico di controllo obbligatorio in Italia. Anche se i risultati di questa esperienza non sono facilmente generalizzabili ed esportabili in altri contesti come il Nord America, dove il problema si manifesta con differenti caratteristiche epidemiologiche, sono una solida base di conoscenza per ulteriori studi e hanno rappresentato il punto di partenza per la stesura del protocollo europeo di screening preliminare dei giovani atleti alle competizioni(4) promosso dalla Società Europea di Cardiologia.

STRETCHING: è davvero così importante per il podista e quanto tempo occorre perché sia efficace?

STRETCHING, termine che proviene dall’inglese “to stretch” che in italiano significa allungamento. È una metodica che consiste nell’allungamento muscolare e nella mobilizzazione delle articolazioni attraverso l’esecuzione di esercizi di stiramento, semplici o complessi, allo scopo di mantenere il corpo in un buono stato di forma. basti riflettere sul naturale gesto di “stiracchiamento”, un comportamento facente parte del bagaglio genetico di ogni essere vivente in  terra.
Essenzialmente, risulta essere un movimento d’ampiezza articolare che va nel verso opposto al senso di contrazione volontaria del muscolo prescelto.
Gli esercizi di stretching sollecitano, oltre alle fibre muscolari, il tessuto connettivo (tendini, fasce ecc.) presente nella struttura contrattile. Il tessuto connettivo è estensibile (può essere allungato), ma se non viene regolarmente sollecitato con l’esercizio fisico, in breve tempo perde questa caratteristica essenziale.
Stretching statico
È il sistema di stretching più conosciuto, Si raggiunge l’allungamento muscolare tramite posizioni di massima flessione, estensione o torsione. Queste posizioni devono essere raggiunte lentamente in modo da non stimolare nei muscoli antagonisti il riflesso da stiramento
Raggiunta la posizione va mantenuta per un tempo da 15 a 30 secondi, è importante che l’estensione non superi la soglia del dolore.
Leggi dello stretching statico:
1.Trazione costante senza molleggi da 10 a 30 secondi.
2.Mai oltre la soglia del dolore.
3.Riscaldamento generale prima dello stretching.
4.Abbigliamento comodo.
5.Ambiente non rumoroso.
6.Suolo non freddo.
7.Concentrazione.
8.Non confrontarsi con altri.
9.Controllo del respiro.
10.Alternare l’estensione dei muscoli agonisti con quelli antagonisti.
11.Programma razionale, meglio se sviluppato da personale qualificato

la respirazione deve essere normale e tranquilla.mai trattenere il respiro perché una buona ossigenazione attenua lo stato di tensione dell’atleta fino a portarlo ad uno stato di equilibrio delle sue funzioni fisiologiche e quindi anche del tono muscolare.
benefici che lo stretching genera sia sul livello di prestazione sportiva, che sull’efficienza fisica.

Benefici sul sistema muscolare e tendineo
– Aumenta la flessibilità e l’elasticità dei muscoli e dei tendini.
– Migliora la capacità di movimento.
– È un’ottima forma di preparazione alla contrazione muscolare.
– In alcuni casi diminuisce la sensazione di fatica.
– Può prevenire traumi muscolari tendinei ed articolari.
– Riduce lo stress fisico.
– Favorisce la coordinazione dei movimenti.
– È rilassante e calmante.
– migliore capacità di imparare e svolgere movimenti difficili
– migliore sviluppo della consapevolezza del proprio corpo
– maggiore agilità per lo stimolo della produzione di agenti chimici che   lubrificano i tessuti connettivi
– riduzione dei dolori mestruali (dismenorrea) nelle donne

Quindi come puoi ora comprendere lo streching e’ essenziale non solo per il podista ma per qualsiasi sport e fa parte integrante del complesso processo di allenamento dell’atleta .Pertanto non e’ corretto parlare di un tempo di efficacia dello streching come chiedi,ma sara’ il tuo rendimento sportivo la tua maggior flessibilita’ e facilita’ a compiere il gesto atletico la tua minore vulnerabilita’ ai crampi ai dolori della schiena e dei glutei nelle corse di lunga durata, agli infortuni,a documentarne l’efficacia e la utilita’ di pari passo con il tuo allenamento specifico. Segui giornalmente un tuo programma di streching di almeno 1\2 ora,fai sempre perlomeno 5 min di streching prima dell’allenamento e della gara e possibilmente anche dopo.

(by Franca 24-11-06)

Postura e podismo

Il podismo è uno sport in cui le problematiche mediche a carico dell’apparato locomotore solo  in una minima percentuale di casi sono riferite ad un trauma acuto (ad esempio una caduta), mentre la stragrande percentuale di coloro che lamentano disturbi a carico di muscoli, tendini o articolazioni soffrono di patologie di tipo cronico. Per patologia di tipo cronico si intendono disturbi di lunga durata, spesso con alternanza di periodi di miglioramento e peggioramento ma complessivamente tendenti a divenire sempre più significativi e ad insorgenza spesso non ben definibile o comunque associata ad episodi di non grande rilievo.
Questo tipo di problemi sono spesso la causa di lunghi periodi di inattività e addirittura dell’abbandono della stessa.
I disturbi ai quali mi riferisco sono estremamente vari ed eterogenei e apparentemente del tutto scollegati fra loro.
Si tratta di  processi infiammatori a carico dei tendini (tendinite rotulea o del tendine di Achille le più frequenti), contratture o lesioni muscolari spesso ricorrenti degli arti inferiori, dolori delle articolazioni (ginocchio, anca, caviglia), mal di schiena a carico di vari tratti del rachide, dolore o periartrite della spalla etc.
Perché disturbi così lontani fra loro e apparentemente così indipendenti l’uno dall’altro meritano invece un’attenzione globale?
Perché questi ed altri disturbi possono essere tutti legati ad uno squilibrio del sistema posturale.
A determinare la postura di un individuo sono meccanismi estremamente complessi .
Possiamo dire che il sistema posturale costituisce una sorta di computer centrale (il sistema nervoso centrale) che ha il compito di regolare l’equilibrio e la posizione del corpo attraverso i muscoli preposti. Questo computer è attivato dalle informazioni che arrivano dai recettori specifici della postura, situati in varie parti del corpo e in special modo nei seguenti punti: piede, occhio, apparato stomatognatico (l’occlusione), sistema vestibolare (situato nell’orecchio interno), pelle, muscoli e articolazioni.
Nel caso del podista la postura squilibrata può essere causata da informazioni alterate provenenti da questi recettori specifici. Per esempio un cattivo appoggio del piede o una alterazione cutanea dovuta alla cicatrice di un vecchio intervento chirurgico possono creare squilibri sul bacino o sulla colonna vertebrale.
Un problema all’apparato masticatorio che crea un’interferenza occlusale può avere esiti sulla colonna vertebrale, così come un lieve disturbo visivo.
Anche le sindromi da stress muscolare possono essere dovute a tensioni anomale che generano un eccessivo consumo di glicogeno con conseguente produzione e accumulo di acido lattico. E’ il cosiddetto muscolo del “cattivo rendimento” che non migliora con l’allenamento ed è spesso soggetto ad infortuni.
Da queste considerazioni appare evidente che il trattamento di queste problematiche non può limitarsi al trattamento locale della zona interessata dal sintomo (ad esempio la schiena) ma deve andare a cercare e trattare le cause a distanza del problema che si presenta.
E’ necessario quindi effettuare una valutazione funzionale dell’equilibrio posturale nel suo insieme.
Questa valutazione sarà di tipo clinico e strumentale con apparecchiature specifiche quali ad esempio la pedana stabilometrica, il podoscanner etc. Esistono una serie di test per valutare il ruolo dei vari recettori (piede, occhio, sistema occlusale etc) nel determinare il disturbo che ci troviamo di fronte.
La strategia terapeutica deve mirare al riequilibrio e alla ottimizzazione del sistema tonico posturale cercando di eliminare o correggere le disfunzioni che hanno portato all’insorgenza dei sintomi.
Le armi terapeutiche a nostra disposizione sono estremamente varie ed ovviamente legate al distretto corporeo su cui vogliamo indirizzare il nostro intervento.
Di fondamentale importanza sono tutte quelle tecniche di tipo riabilitativo che agendo sul nostro corpo in maniera complessiva determinano un riaggiustamento del sistema posturale, di grande aiuto può essere anche l’intervento dell’osteopata. A seconda dei casi potremo utilizzare anche alcuni ausili quali solette di riprogrammazione posturale per intervenire attraverso il piede sul sistema posturale o bite per intervenire attraverso il sistema occlusale.
Abbiamo parlato finora di approccio olistico, cioè globale, e in quest’ottica non possiamo trascurare l’importanza dell’aspetto psicologico e lo studio delle funzioni viscerali, che ,anche se di comprensione meno immediata, possono comunque dare origine a disturbi dell’apparato locomotore.
In conclusione non dobbiamo mai considerare una parte del nostro corpo come avulsa dalle altre ma considerare sempre l’individuo nel suo insieme e solo così sperare di affrontare con successo i problemi che si presentano. (Dr.Cantilena E.)

fascite plantare

LA FLASCITE PLANTARE

La flascite plantare rappresenta un problema frequente negli sports che comportano spinte ripetute o salti, quali l’ atletica ( corsa salti ), la ginnastica, la danza. Il sintomo piu’ eclatante e’ il dolore alla pianta del piede durante la pratica agonistica, poi anche a riposo o ella deambulazione, soprattutto al mattino appena alzati. E’ una patologia a carico della fascia plantare, la quale e’ una struttura fibroso elastica situata in regione plantare del piede: ha la forma triangolare con l’ apice posteriore inserito sul calcagno e la base anteriore alla radice delle dita ( articolazioni metatarse falangee ).

Questa fascia a un ruolo importante nella trasmissione di forza dal tricipide surale

( muscoli del polpaccio ) all’ avanpiede, e la sua viscoelasticita’ permette di restituire per distensione elastica una notevole quantita’ di energie ad appoggio nella corsa o nel salto.

Fattori predisponenti alla comparsa di patologie a carico della fascia plantare sono:

1  Errori di allenamento: carichi di lavoro molto intensi od incrementi troppo repentini degli stessi comportano un sovraccarico funzionale della fascia con conseguente comparsa del dolore plantare.

2) Fattori anatomici:

–  piede cavo che determina un aumento di tensione della fascia;
–  sovrappeso dell’ atleta;
–  ipotrofia dei muscoli intriseci del piede. Questo inconveniente puo’ essere superato mediante opportuni esercizi e/o trattamenti fisioterapici ( stimolazioni Faradiche );

3)  Biomeccanica della corsa, un’ appoggio con pronazione accentuata, cioe’ con un sollevamento del margine esterno del piede e depressione di quello interno, determina un aumento di tensione della fascia per il prolungamento della fase intermedia dell’ appoggio.

4)  Tipo di scarpa, spesso la fascite compare al cambio di scarpe usurate con una nuova calzatura che risulti inadatta al tipo di appoggio dell’ atleta, o troppo pesante e troppo leggera per la sua andatura, oppure di misura piu’ larga. Quindi nella scelta del tipo di scarpa si ricordi che ogni piede vuole la sua scarpa, nel senso che ogni soggetto presenta una diversa adattabilita’ per cui e’ la calzatura che deve adattarsi al piede e non viceversa.

5)  Terreni di allenamento, terreni irregolari come nella corsa campestre, o superfici dure come l’ asfalto ed a volte le sintetiche possono favorire la comparsa di fascite plantare.

Malattie sistemiche, reumatiche, metaboliche.

Nessuno dei fattori suddetti da solo e’ causa di patologia, ma la combinazione di due o piu’ di essi possono determinare la fascite plantare. Come abbiamo gia’ detto il sintomo principale e’ il dolore plantare sia durante l’attivita’ fisica che a riposo, accentuato dalla presso-palpazione della pianta del piede. Utili ai fini diagnostici nei casi cronici possono essere:

  1. RX del piede, che puo’ evidenziare una spina calcaneale nel punto di inserzione della fascia;
  2. ECOGRAFIA plantare, per escludere presenza di lesioni della fascia;
  3. TERAPIA: riposo dall’ attivita’ sportiva, farmaci antinfiammatori, Fisioterapia;

( massaggi, idromasaggi, ionoforesi, Tens ). A cio’ deve seguire una ripresa graduale dell’attivita’ sportiva, programmando adeguatamente l’ aumento dei carichi di lavoro, ritardando nel tempo l’attivita’ di salti, evitando inizialmente la corsa su superfici dure preferendo, ad esempio la corsa sul prato o sabbia. Infine e’ molto importante la corretta scelta del tipo di scarpa, e l’eventuale adozione di plantari ortopedici che correggano i difetti e/o biomeccanici.

(Fonte Marathon club Roma )

Il cervello si allena quando si allena il corpo

Un’attività fisica regolare migliorerebbe le capacità cognitive dei più giovani. Dopo numerosi studi in cui viene documentato un simile beneficio nelle persone anziane, dalla University of Illinois at Urbana Champaign arrivano i risultati di uno studio che dimostra come l’attività fisica migliori le funzioni cerebrali ad ogni età. Il lavoro, condotto in collaborazione con la Vrije Universiteit di Amsterdam, è stato pubblicato sulla rivista Health Psychology.

“L’attività fisica può essere benefica per le funzioni cognitive in età giovane ed adulta e costituire una protezione a lungo termine contro i problemi legati all’età durante la vecchiaia”, afferma Charles Hillman autore dello studio e professore di kinesiologia e salute pubblica a Urbana-Champaign. Hilman ha sottolineato che le precedenti ricerche si concentravano sulla relazione tra attività fisica e capacità cognitive nella terza età, mentre adesso deve essere chiaro che è coinvolta l’intera durata della vita.

Per ottenere i loro risultati Hillman e i suoi colleghi olandesi hanno coinvolto 241 persone tra i 15 e i 71 anni di età. Tutti i partecipanti hanno riportato su un questionario la loro attività fisica abituale ed hanno completato alcuni test che valutavano le loro performance su abilità specifiche. In particolare misuravano il tempo di reazione e l’accuratezza delle risposte in presenza di schemi visivi più o meno congruenti che coinvolgevano processi mentali noti come funzioni di controllo esecutivo.

Le funzioni di controllo esecutivo sono quelle che necessitano di un ragionamento complesso che richiede un’interazione tra diverse capacità mentali come la memoria, l’associazione di idee, la capacità di programmare. Sono quelle in cui non servono le reazioni istintive. I risultati hanno mostrato che i partecipanti che hanno ottenuto i tempi di reazione migliori erano quelli più giovani e quelli che praticavano più attività fisica, mentre non è stata riscontrata una relazione significativa con l’accuratezza delle risposte.

Secondo i ricercatori anche se ancora non è chiaro se l’attività fisica protegge le funzioni cognitive durante i primi decenni di vita o se promuove un miglioramento di queste capacità, questo non cambia l’importanza dei risultati. “L’attività fisica è collegata ad una migliore salute cognitiva e all’efficacia delle funzioni cerebrali durante tutto il corso della vita”, riassume l’autore. Come dice il detto, mens sana in corpore sano!

Fonte: Hillman CH, Motl RW et al. Physical activity and cognitive function in a cross-section of youngerand older community-dwelling individuals. Health Psychology 2006; 25(6).

La febbre è utile?

Colpa o merito dell’interleuchina?

EZIOLOGIA

Come e perché la nostra temperatura corporea si innalzi in presenza di un”infezione è scoperta recente e ancora incompleta. Il mediatore chiave della febbre è stato identificato nell”interleuchina I, prodotta dai leucociti attivati dalla reazione immunitaria nei confronti degli antigeni batterici e virali. Questo mediatore agisce con meccanismo diretto sul centro della termoregolazione e causa nell’organismo ospite una serie di reazioni metaboliche finalizzate a rendere difficile la sopravvivenza del microrganismo patogeno.

Da una decina d”anni circa è stato chiarito il ruolo del ferro nel rialzo febbrile. Le interleuchine sono infatti in grado di diminuire le riserve di ferro circolante, elemento indispensabile alla replicazione batterica. L”innalzamento termico, combinato con la carenza marziale, sarebbe alla base della limitazione replicativa.

(Weinberg ED. The sequestration of iron as a defense against bacterial pathogens. Pysiological review 1984; 64: 65. Lorin MI. Fever: pathogenesis and treatement. In: Textbook of pediatric infectous diseases. W.B. Saunders, Philadelphia, 1987. Kluger MJ. Fever and reduced iron: their interaction as a host defense response to bacterial infection. Science 1979; 23: 374)

 

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UNA VISIONE EVOLUZIONISTA

Perché la febbre? Apparentemente questo sintomo sembrerebbe aggravare la malattia invece che limitarla. I pazienti la tollerano difficilmente ed è ben noto il suo effetto di accelerazione sul metabolismo, con il conseguente senso di spossatezza. L”interleuchina è anche causa delle mialgie e della maggior parte dei sintomi sistemici. Eppure gli studi evoluzionistici ne suggeriscono l”utilità come agente antinfettivo. La scoperta che anche numerosi animali a sangue freddo ricorrono all”innalzamento della propria temperatura corporea in caso di infezione sembra una conferma della sua utilità. Non tutto però è ancora chiarito: se i batteri risentono della carenza di ferro indotta dai mediatori della febbre, è altrettanto vero che alcune tossine batteriche beneficiano della diminuzione di assorbimento di questo elemento; è il caso, per esempio, della tossina di Escherichia Coli, che causa diarrea, la cui produzione è stimolata dalle carenze marziali. In questo caso la febbre aggrava la patologia.

Principi biochimici ed evoluzionistici suggeriscono che l”effetto della febbre possa essere sia positivo sia negativo, a seconda della particolare interazione fra patogeno e ospite. Poiché questi scenari alternativi dell”evoluzione tra le specie non sono ancora noti e riconosciuti, gli esperimenti chiave in grado di distinguere caso per caso non sono stati ancora effettuati e, di conseguenza, sono stati fatti solo i primi passi nella comprensione della febbre. \r\n(Kluger MJ. The adaptative value of fever. In: Fever: basic mechanisms and management. Raven Press, New York, 1991)

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IL TRATTAMENTO\r\nAlla luce di quanto sopra esposto non si ottiene un”anticipazione della guarigione trattando, la maggior parte delle febbri di origine infettiva di comune riscontro. Anzi, in qualche caso si potrebbe prolungare la malattia. Tuttavia, poiché questo sintomo può aggravare il malessere del paziente, soprattutto nei casi in cui la temperatura supera i 38,5 °C, è possibile consigliare un farmaco antipiretico. Nel bambino il farmaco più indicato sembra il paracetamolo, ma alcuni trial clinici dimostrano una pari efficacia della nimesulide. Si sconsiglia l”aspirina per il rischio della sindrome di Reye.

(Adam D. Treatement of fever in childhood. Eur J Pediatr 1994, 153: 394. Polidori G et al. A comparison of nimesulide and paracetamol in the treatment of fever due to inflammatory diseases of the upper respiratory tract in children. Drugs 1993; 46 I: 231)

 

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IL MEDICO GENERALE E LA FEBBRE

Un interessante studio norvegese, effettuato su un gruppo di medici di base per analizzare il loro comportamento terapeutico nei confronti del rialzo febbrile, ha dimostrato che nei paesi nordici prevale l”uso di non trattare con antipiretici, se non per temperature oltre i 39,5 °C. Un terzo dei medici, però, se la febbre colpisce i loro stessi figli, non rispetta queste raccomandazioni. Un analogo studio svolto tra i farmacisti ha invece mostrato che più del 50 per cento consiglia un antipiretico in caso di raffreddore o influenza.

(Eskerud JR et al. General practitioners and fever: a study on perception, self-care and advice to patients. Pharm World Sci 1993, 15: 161. Eskerud JR et al. Pharmacy personel and fever: a study on perception, self-care and information to customers. Pharm Worl Sci 1993; 15: 156)

Sindrome della loggia anteriore

Sindrome della Loggia Anteriore

La Sindrome della loggia anteriore, definita anche come “sindrome compartimentale anteriore”, è una condizione patologica clinica vascolare e muscolare che si può presentare in due forme:

– forma cronica, che colpisce atleti di tutte le discipline sportive;

– forma acuta, generalmente più comune in atleti che praticano sport di lunga durata (come la corsa, la marcia, il triathlon, eccetera), soprattutto coinvolgendo atleti che presentano in genere una muscolatura particolarmente più sviluppata ed ipertrofica.

Statisticamente l’atleta tipo colpito dalla sindrome presenta le seguenti caratteristiche anamnestico-cliniche:
attività di fondo scarsi intervalli di recupero tra una gara e l’altra o nell’ambito degli stessi allenamenti corsa digitigrada (corrono dunque prevalentemente sulle punte) utilizzo di circuiti di allenamento con pendenze discrete (corse in salita quindi).
Questo quadro clinico coinvolge i muscoli che nella gamba si localizzano nella “loggia anteriore”: il muscolo tibiale anteriore, il muscolo estensore lungo delle dita, il muscolo estensore lungo dell’alluce e il muscolo peroneo anteriore.

Sintomi e segni clinici sono caratteristici: senso di tensione ed indurimento in sede muscolare, che limita l’atleta nello sforzo o, nei casi più gravi, lo induce a sospendere l’attività, dolore al termine dello sforzo (spesso riferito come bruciore), a riposo o evocato dalla pressione sui muscoli interessati, ipertermia delle aree interessate con edema, riduzione della forza dei muscoli coinvolti. La causa di questa sindrome nella forma acuta è da ricercarsi nella ischemia (riduzione di afflusso di sangue) transitoria dei muscoli della loggia anteriore determinata dalla compressione che gli stessi muscoli esercitano durante lo sforzo sui vasi sanguigni, che risultano inglobati all’interno della loggia; nella forma cronica invece la causa è data da sollecitazioni costanti eccessive e prolungate del muscolo tibiale anteriore e delle sue giunzioni miotendinee. Nella sua definizione clinica è importante fare diagnosi differenziale con altre patologie che possono dare una sintomatologia simile come le arteriopatie e le vasculopatie in genere, le fratture da stress, le periostiti e le sindromi canalicolari. Nella definizione diagnostica valido ausilio è rappresentato dall’ecografia muscolo-scheletrica che permette di identificare la flogosi ed i muscoli coinvolti, e dall’esame ortostatico-baropodometrico, che consente di evidenziare i carichi plantari e, quindi, verificare se vi sono alterazioni posturali tali da indurre sollecitazioni eccessive sulle aree avampodaliche con proiezione in avanti del baricentro corporeo. La valutazione del passo o del gesto sportivo con baropodometro rappresenta spesso un elemento diagnostico importante, poiché consente di verificare eventuali elementi biomeccanici predisponesti alla patologia che è a decorso benigno, ma può essere invalidante, limitando significativamente l’attività sportiva e le prestazioni.
In fase acuta, servono evidentemente:
1) riposo,
2) ghiaccio,
3) farmaci anti-infiammatori,
4) farmaci vasodilatatori.

Nelle forme più aggressive è indicata la fisioterapia (bisogna prediligere terapie fisiche come il Laser, gli ultrasuoni e la T.E.C.A.R.). La ripresa dell’allenamento, in modo corretto, con calzature idonee, talora con ortesi plantari che modificano il carico corporeo al suolo, evitando carichi eccessivi in sede anteriore, può essere indicata dopo qualche giorno. L’intervento chirurgico è da considerare nei casi resistenti a trattamento conservativo e fisio-kinesiterapico, come ultima soluzione. La fasciotomia decompressiva, nelle forme croniche, con l’asportazione di alcune porzioni muscolari (quei segmenti già atrofizzati e/o necrotici) è una tecnica chirurgica da considerare solo in casi estremi, quando la qualità di vita è notevolmente compromessa anche negli atti quotidiani, per consentire nuovamente al muscolo di espandersi senza compressione sulla struttura vascolare.

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