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COSE DA RUNNERS

Cose da Runners: intervista a Maurizio “TheHand” Di Bon

Maurizio “theHand” Di Bona, napoletano classe 1971. Ha illustrato per Smemoranda, Piero Pelù, Cranberries, Gillian Anderson, Beppe Grillo, Il Fatto Quotidiano, Il Misfatto, Il Ruvido, L’Ateo, Cadoinpiedi, Radio2. La sua ultima fatica è il progetto Cose da Runners, una raccolta di caricature riguardanti il mondo del running.

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11195508_10204771074942103_993921196_nCome e quando è nato il progetto Cose da Runners?
É nato in Germania, dove ho vissuto fino a quattro anni fa. Ho cominciato ad annotare mentalmente cose tutte le volte che andavo a correre, ma solo per divertimento personale: quando incontro una persona tendo a vederla come personaggio e a distorcerla in caricatura. Era come registrare specie strane di un pianeta che non era il mio. L’idea di raccogliere quelle “registrazioni in corsa” che cominciavano a essere troppe nella testa – si erano frattanto aggiunte quelle del periodo in cui ho vissuto a Dublino e ovviamente in Italia –  e di farne un libro è venuta più tardi, appena un anno fa.

Quando è nata la tua passione per il running?
Circa dieci anni fa, ad Augsburg, sempre in Germania. Ho cominciato con i classici giri di campo d’obbligo a oltranza. Ce n’era uno vicino casa che era sempre pieno di corvi, ma era sconfinato e finire un solo giro era già un’impresa: non avevo fiato e mi fermavo in più punti. I corvi allora gracchiavano (o se la ridevano) e io ripartivo. Sono stati loro i miei primi coach!
Poi a Ravensburg, dove quasi ogni giorno me ne capitava una. C’era un vecchio che mi vedeva uscire la mattina presto in mezza tuta nonostante vento, pioggia e neve ed esclamava tutte le volte “Nicht Kalt?!” (ma non hai freddo?). Altro aneddoto che racconto nel libro è quello di un gruppo di ragazzini che venivano a vedermi perché convinti che fossi un pugile turco che andava ad allenarsi come Rocky, flessioni e scalinata inclusa. Lo capii quando un giorno uno di loro si fece coraggio e venne a chiedermi l’autografo!

11169012_10204771073822075_1438896862_nCome ti è venuta l’idea di suddividere i runners in tipologie? Quali criteri hai seguito?

Li ho etichettati in corsa grazie agli automatismi mentali di cui parlavo prima … L’andatura, il look, il peso, le fisionomie, gli accessori …e un po’ d’occhio clinico hanno fatto il resto.
Devo dire che i runners fanno poco per nascondere chi sono, amano mostrarsi e raccontarsi. Molto si deduce d’impatto già in base a come vestono e si muovono. I tedeschi comunque mi hanno agevolato molto nell’arricchire la gallery: a Lipsia vedevo uno che correva con un disco di ghisa appiccicato sulla schiena. Anche gli irlandesi con cui ho avuto la gran fortuna di condividere il parco più grande d’Europa (Phoenix Park) dove ti ritrovi a correre con i daini in libertà (uno spettacolo!), hanno fornito tracce interessanti. Il parallelo con il mondo animale forse ha aiutato a leggere e classificare: runners che spuntano solo di notte come gufi e falene, altri che amano il sole come lucertole e galli, chi corre come un ghepardo, chi invece si muove a passo lento ma regolare come una tartaruga, l’anfibio che gode sotto la pioggia…
Hai riscontrato supporto o interesse da parte di associazioni sportive o altri atleti? Magari di chi si allena con te?
Grazie al gruppo su Facebook il progetto si è fatto conoscere da solo: in tanti hanno seguito la pubblicazione delle bozze affezionandosi all’iniziativa e leggendo le pagine in anteprima. Anche runner professionisti che hanno scritto libri seri sull’argomento e direttori di riviste specializzate stanno seguendo la cosa con interesse. Chi si allena con me, volente o nolente, ha dovuto per forza di cose ascoltare i, per così dire, reading mentre si andava … alcuni pezzi li ho elaborati, corretti e limati così, anche ascoltando i loro commenti e giudizi. Mentre si corre si vedono meglio le cose, i pensieri si riordinano e se hai dubbi o elementi da chiarire, nove volte su dieci a fine corsa hai risolto il rebus. Le associazioni conto di coinvolgerle adesso: è cominciata la fase 2 perché ho completato tutte le cento matite, quindi si moltiplicano le uscite, si fanno gare, si lascia il materiale informativo, si stampano le t-shirt… e si va a caccia dell’editore!

Secondo te, progetti di questo tipo possono aiutare a fare più luce sulla tematica sportiva, in particolare su discipline meno conosciute, e magari anche a diffondere la passione per lo sport?

so per certo che alcuni hanno cominciato a correre proprio leggendo le cose che ho scritto e disegnato. Forse l’avrebbero fatto comunque, ma mi piace pensare di aver contribuito a velocizzare la “pratica” e aver dato la spinta iniziale. Chi supera le prime volte e “scollina” poi comincia a sentire il richiamo, e il più è fatto. È come avere un cane da dover portare fuori, anzi due, nascosti nei quadricipiti. Abbaiano e non c’è niente da fare, devi assecondare la loro richiesta. Poi cominci a godere di tutti i benefici, puoi imbottigliare le endorfine e le encefaline che produci in eccesso, i cani crescono e benedici il giorno in cui sei uscito per la prima volta, dolori inclusi.
Quando ero in Irlanda, pensavo ad un fumetto con i giocatori di hurling [sport di origini celtiche: http://it.wikipedia.org/wiki/Hurling, NdR], loro sport nazionale… che soprattutto nelle periferie puoi vedere giocare dai ragazzini nei cortili o in uno dei tanti grandi prati.
Non ti nascondo che l’intenzione era proprio quella di mostrare uno sport che in pochi conoscono fuori dall’Irlanda… ma il tempo per far tutto non c’è mai. Mi tocca tenerlo quindi in standby nella testa e intanto mi studio il baseball dei Peanuts!

Correre è come leggere: ci vuole ritmo per la corsa e ritmo per un buon libro

Da “L’arte di correre” di Murakami a “Resisto dunque sono” di Trabucchi, passando per Bonatti e Messner… Daniele Barbone, autore di “Runner si diventa”, svela i suoi maestri di scrittura, vita e corsa, regalando preziosi consigli (e 5 massime letterarie a tema)

Quando corri puoi fantasticare, riflettere, ricordare spunti più o meno importanti delle tue giornate o pianificare idee e progetti per le prossime a venire.  Puoi ricordare una canzone che ti piace o un libro che hai letto. La corsa, ed il cammino, sono la pratica fisica che più aiuta la concentrazione, la meditazione ed il rilassamento.
Sempre che il tuo ritmo sia consono alle tue possibilità e che tu lo sappia gestire. Cosa che si impara. Se correndo ascolti musica dopo un po’ ti ritroverai in un mondo tutto tuo. Fatto dalle note e dalle parole che ascolti. Se preferisci il silenzio, sentirai i tuoi passi, il tuo cuore, il respiro, i rumori del percorso con una sensibilità mai provata prima. E poi ancora se corri con un compagno, è bello parlare e dipende dal ritmo. Ma ancora più dedicarsi al silenzio ed al passo cadenzato. Ad un certo punto scoprirai che il suono della tua e della sua corsa, saranno all’unisono. Un’armonia di passi ritmati al medesimo tempo.

Sulla corsa e del benessere che essa produce, ho letto libri molto belli. Alcuni molto tecnici. Quanto correre, come correre, dove correre, che distanze, come iniziare, come migliorare, come correre in montagna, come affrontare gare agonistiche  o puramente sullo svago.
Ne scrivono tecnici e runner professionisti.

Personalmente preferisco i racconti della corsa e dei grandi cammini. Questo è il mondo dei grandi romanzieri, degli “estremi” o dei viaggiatori.
Mi piace attraverso la lettura di questi, poter vedere posti che non ho visto, provare esperienze di altri corridori o camminatori,  capirne le sensazioni e confrontarle, studiarle, imitarle se possibile. Le mie letture preferite spaziano da Trabucchi a Murakami a Messner e Bonatti. E se è vero che noi siamo la somma delle esperienze vissute, anche il mio scrivere di corsa è erede della lettura di questi e di altri scrittori.

Del Trabucchi di Resisto dunque sono (Corbaccio) trovo grande conforto nelle analisi psicologiche su quella dote innata, ma talvolta sopita, della resilienza. Siamo fondamentalmente portati a superare le avversità ed abbiamo tutti gli strumenti per gestirle “Non ho poteri magici, la forza interiore è il mio potere magico” cita Pietro dagli antichi samurai. Nel mio libro riporto anche altri insegnamenti che Trabucchi mi ha trasferito quando ho avuto la fortuna di poter stare con lui in aula o su una parete in cordata. Ed in particolare mi piace ricordare gli insegnamenti sulla meteorologia. Il tempo è un fattore esterno a noi  totalmente impossibile da controllare ma del quale nella corsa devi gestirne gli effetti. Il caldo, il freddo, la pioggia non sono da noi controllabili. Che si tratti di corsa o della vita di tutti i giorni è bene ricordare che esiste l’alea dell’imponderabile. Che si tratti di un attentato a Boston durante una maratona o un grave evento familiare.

Da Murakami ne L’arte di correre (Einaudi) il continuo spaziare dai racconti di corsa a quelli sul suo lavoro di “artista della parola” si alterna senza sosta. Murakami ci parla dei suoi pensieri, condivide le modalità di preparazione e continuamente ne fa cogliere quanti punti di contatto ci siano tra la corsa e la vita di tutti i giorni. È forse da qui che è nata l’idea di seguire in Runner si diventa  una narrazione che descrive come un uomo che non ha mai fatto sport prima in vita sua, sia diventato in pochi anni un ultramaratoneta. È un percorso sportivo che ha continui riferimenti in quello che si vive quotidianamente. Non siamo esseri “divisi”. Siamo un unicum. Uomo, sportivo, padre, lavoratore. È l’individuo al centro che si esprime in diversi ambiti ma con caratteristiche univoche che lo contrassegnano. Ed è così che runner si diventa, ma anche imprenditore, insegnante, cuoco, studente, avvocato, artigiano o artista si diventa.

In Bonatti, così come in Messner, non a caso sono eredi della stessa esperienza di uomini di avventura, adoro il racconto dei grandi spazi esterni e dell’interiorità. Bonatti con Una vita così (BUR) e Messner con La libertà di andare dove voglio (Corbaccio) i portano in posti unici e quasi mai si soffermano su tecnicismi eccessivi. Sono i loro piedi, i loro occhi, i loro pensieri, lo spazio intorno ad essi a farci viaggiare con loro, se non oltre. Ci possono ispirare, far sognare, volare sopra le grandi cime, nei deserti più estesi o nelle foreste più fitte. Noi siamo lì con loro. Ognuno di noi così piccolo rispetto alla loro maestosità. Ho preso dal loro zaino di viaggio, piccoli attrezzi nel mio racconto. E in quegli attrezzi ho trovato la voglia di lasciare i percorsi delle grandi città e delle grandi maratone e cimentarmi nei deserti, siano essi organizzati come nel Sahara, o in solitaria come nel Judean Desert. Perché la vita è un itinerario, che se fatto a piedi ti può portare fino all’estremo di te stesso. Il posto più lontano che potrai mai scoprire.

5 massime per la corsa tratte dai miei libri preferiti:
Comunque vada, il gesto più eroico è dato dalla decisione di partire (mia citazione);
La fatica è una realtà inevitabile, mentre la possibilità di farcela o meno, è a esclusiva discrezione di ogni individuo (Murakami);
Attraverso queste esperienze metti alla prova te stesso e impari soprattutto a conoscerti. E’ un implosione verso se stessi (Bonatti);
Non ho poteri magici, la forza interiore è il mio potere magico (Trabucchi);
Camminare per me significa entrare nella natura. La Natura per me non è un campo da ginnastica. Io vado per vedere, per sentire, con tutti i miei sensi (Messner);

*Daniele Barbone è autore di Runner si diventa (Corbaccio) in libreria dal 16 aprile.

Libri da leggere… di corsa.

Correre nel “grande vuoto”. Vi racconto la mia maratona nel deserto‏ di Marco Olmo Gaia De Pascale

“C’è una settimana all’anno in cui non c’è spazio per la meschinità, l’inganno, la codardia, il sotterfugio, ed è la settimana della Marathon des Sables…”. Marco Olmo, con Gaia De Pascale, racconta su ilLibraio.it la sua partecipazione alla famosa corsa nel deserto del Sahara.
E così l’ho fatto. Ho corso la mia ventesima Marathon des Sables.

Nel 1996, quando ho accettato la sfida per la prima volta, tutto avrei potuto immaginare tranne che avrei continuato per due decenni. E invece eccomi qua, a guardare le fotografie di una gara che si è fatta già ricordo, a rileggere per l’ennesima volta i messaggi degli amici che hanno seguito passo passo la mia impresa. Tra tutti, uno mi ha colpito in maniera particolare. È una e-mail di Paolo Rovera, e dice così: «Adesso starai toccando con mano l’essenza umana, quanto siamo piccoli di fronte all’universo… ricorda che da trent’anni a questa parte c’è una settimana all’anno in cui non c’è spazio per la meschinità, l’inganno, la codardia, il sotterfugio, ed è la settimana della Marathon des Sables».

Magie del deserto, verrebbe da dire. Magie che ho sempre il timore possano svanire, risucchiate dall’abitudine, confuse tra la mischia della partenza. Anche questa volta è andata così. Più di mille persone al via, la sottile angoscia che l’incanto di un tempo fosse svanito. Poi, dopo un’ora e mezza, ogni cosa è andata al suo posto. Il gruppone iniziale si è sfilacciato, il corridore che mi precedeva era a più di duecento metri da me, di quello dietro non sentivo più il passo. Eravamo solo io e il deserto. Tutto, all’improvviso, si è fatto piccolo. I dolori, le paure, le fatiche della vita di sempre. Ho ripensato ai deserti in cui ho gareggiato: Giordania, Sinai, Mauritania, Mali, Namibia. E poi il più bello, il deserto dell’Akakus, in Libia, ai confini con l’Algeria. Oggi quell’area non è più praticabile, e le immense dune, le rocce erose dal vento, le vaste distese di ghiaia sono chiuse in un silenzio cupo, assediato dal fragore violento della Storia. Ho scacciato via questo pensiero, ho respirato forte, e sono corso incontro a quello che ho sempre cercato tra le distese di sabbia: la più profonda solitudine.

Questo è il deserto per me: tornare alla nudità del mondo, a prima che tutto accadesse, anche la vita stessa. Qualcosa, in questo paesaggio così estremo ed essenziale, mi è sempre stato congeniale. Ora sono in grado di «navigarlo», di adattarmi al tipo di spinta che viene da sotto, di evitare con la forza del puro istinto la sabbia mossa, quella che rallenta il passo e pesa sui muscoli. Ho imparato a correre leggero, a sopportare il vento che per gli strani giochi del caso soffia sempre contro.

Una sera, mentre riposavo nella tenda, mi sono guardato da fuori. Ero stremato, sporco di sabbia, buttato per terra, ridotto all’essenziale. Non mi sentivo nemmeno più un uomo, ma qualcosa di infinitamente più piccolo, e infinitamente più grande. Ho pensato che Sahara significa «grande vuoto». Ci ripenso anche oggi, nella mia casa. Credo sia quel vuoto che non smetterà mai di mancare a noi che abbiamo tutto, nel nostro mondo troppo pieno. E credo che, in un modo o nell’altro, nella vita o nei sogni che talvolta si fanno incubi, quel vuoto mi chiamerà ancora a sé. Una parte di me ormai gli appartiene – e gli appartiene da quando, per la prima volta, mi sono voltato mentre correvo, e non ho visto nessuno, e non ho visto niente: né un uomo, né un’auto, né una casa, né un albero.
Solo il deserto.

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*Gli autori – Operaio nel cementificio Buzzi nelle valli del cuneese, Marco Olmo, autore (con Gaia De Pascale, per Ponte alle Grazie) del libro Il corridore, con costanza e forza di volontà si allena sulle montagne intorno a casa sua. La partenza è modesta: arriva penultimo a una campestre di quattro chilometri. Ma lui capisce che quello che conta è non demordere. Dopo un periodo passato a gareggiare nella corsa in montagna e nello sci-alpinismo, all’età di quarant’anni ha iniziato ad affrontare competizioni nel deserto africano, raccogliendo un successo dopo l’altro. Vent’anni dopo vince l’ultra trail più dura e più importante del mondo: il giro del Monte Bianco. Ventuno ore di corsa in completa autonomia, senza fermarsi né a mangiare né a dormire… E ora il deserto…